Autorità, ma non solo. Si lavori alla riforma del capitalismo italiano

gennaio 22, 2004


Pubblicato In: Giornali, Il Riformista

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Nanismi

Qual è la linea che separa la fisiologia dalla patologia? E’ naturale che del caso Parmalat a calamitare l’attenzione, dell’opinione pubblica come di politici e studiosi, siano gli aspetti patologici. Ma anche nei sistemi sociali ed economici, così come negli organismi, non sempre le patologie sono riconducibili a shock esterni, più sovente a degenerazioni, magari latenti per anni.

Per restare al caso Parmalat, esso é anche la storia del finanziamento di una grande impresa, un finanziamento “normale”, non troppo dissimile – a parte la fraudolenta gestione interna – da altre storie di finanziamenti di altre grandi imprese. Ora si concentra l’attenzione su quanto è avvenuto nel 2003, in particolare dopo il mese di luglio: ma sarebbe un errore fermarsi agli ultimi giri di carte, quando qualcuno può aver barato per non restare con la matta in mano, e non andare a capire che cosa accadde nei giri precedenti, quando i finanziamenti fluirono copiosi e sereni a un progetto industriale che non li meritava.
La fisiologia del sistema consiste nel modo con cui il risparmio viene convogliato a finanziare le iniziative imprenditoriali. Ogni sistema economico ha la sua fisiologia: dipende dai rapporti tra attività finanziarie ed attività industriali, tra potere finanziario e potere industriale. Nel caso nostro, dagli assetti del nostro “capitalismo senza capitali”. Paesi bancocentrici ce ne sono tanti, ma é indubbio che in pochi il potere concentrato nel sistema bancario è tanto grande quanto in Italia. Sono delle banche tutte le principali SIM ed SGR, dunque i fondi di investimento. Delle banche è la Borsa. Delle banche (e delle Fondazioni ex bancarie) è la Banca d’Italia, cioè l’istituzione che sia vigila su di esse, sia regola il grado di concorrenza a cui sono esposte. In un regime in cui la concorrenza è (per usare un eufemismo) limitata, e in cui in più c’è identità proprietaria tra chi eroga il credito e chi vende il debito, non solo i conflitti di interessi si trovano a ogni passo, ma non esiste il rischio reputazionale, che invece funziona come uno dei principali deterrenti nei mercati competitivi.
Il caso Parmalat non è solo la storia di una gigantesca frode, ma rimanda ai problemi strutturali del nostro capitalismo, gli stessi da cui dipendono il nanismo delle nostre imprese, la debolezza dei nostri investimenti, l’opportunismo dei nostri imprenditori. Porci mano, questa è la vera posta in gioco, ancora più importante che la prevenzione e la sanzione degli illeciti.
Da qui due conseguenze. Primo: non ci si può limitare a intensificare i controlli e ad aggravare le sanzioni. Secondo: la riforma delle autorità di controllo avrà comunque anche effetti sugli assetti del nostro capitalismo. Va valutata per questi effetti: essi non devono essere le conseguenze inintenzionali – men che mai le motivazioni inconfessate – di una diversa ripartizione delle responsabilità dei controlli.
Non sembra che questa preoccupazione domini il dibattito a sinistra. Non parlo di quella per cui ogni “intesa col nemico” é male a prescindere. Ma anche quella riformista si sente in dovere, prima di incominciare a discutere, di mettere sul tavolo, quali corpi di reato, la legge sul falso in bilancio e i condoni, quelle sul rientro dei capitali e sulle rogatorie, argomenti che perfino Antonio Di Pietro ha qualificato “puerili” in relazione al caso Parmalat. Eppure finora le grandi riforme di mercato le ha fatte la sinistra, a cominciare dall’Antitrust e prima ancora dalla istituzione della Consob, e continuando con la legge Draghi, il testo unico bancario, la stessa commissione Mirone di Fassino, condotta poi in porto da Michele Vietti. E le privatizzazioni, che, pure incompiute, sono state la più grande operazione di ampliamento del mercato dello scorso secolo. In tutte queste riforme, aldilà dei governi in carica, l’impianto scientifico e il profilo politico furono quelli della sinistra riformista, che aveva presenti i gap di tutela di mercato e la mancata promozione di concorrenza in Italia. Perché la sinistra riformista ora vorrebbe tirarsi indietro? Per i titoli che essa si è conquistata, e che le vengono riconosciuti, aldilà delle appartenenze o simpatie politiche, da industria e accademia, la sinistra riformista ha il diritto e il dovere di sedersi a quel tavolo, senza cadere nella provocazione di salire sulle barricate a difesa di un’autonomia di Bankitalia.
Questa sarà comunque una riforma di sistema: sarà la riforma di cui il sistema ha bisogno? Esistono le condizioni per metter mano a un disegno riformatore che fissi lo sguardo sulle conseguenze ultime per la fisiologia del nostro capitalismo? Ci sarebbe da dubitarne, se si sta, ad esempio, alla contrapposizione polemica fatta da Giulio Tremonti tra tutela del risparmio e promozione della concorrenza, sbagliata sul piano giuridico (se il risparmio è tutelato dalla nostra costituzione, mercato e concorrenza lo sono dai trattati internazionali) e sul piano concettuale. Se invece si guarda alla sostanza, il ministro Tremonti ha accolto molte delle critiche che erano state mosse alle prime bozze di cui si era avuta notizia. Egli sa bene a quali resistenze deve far fronte, e credo sia cosciente di aver bisogno di un consenso allargato.
La sinistra riformista deve sapere che la posta in gioco è molto più alta della redistribuzione dei compiti tra autorità. Ma soprattutto deve volere che lo sia.

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