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Atei o devoti?

Pubblicato il 10/11/2004 @ 12:07 in Giornali,La Stampa

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Cosa si cela dietro l’ambigua formula

Per gli “atei devoti”, secondo l’espressione di Nino Andreatta, ribaltata da Giuliano Ferrara, il George W. Bush che ha vinto le elezioni è sia il “born again”, che mobilita il voto dell’America profonda, religiosa e integralista, sia il “commander in chief”, la guida che garantisce al paese sicurezza, e non esita nella lotta contro il terrorismo. La fede del convertito come il fondamento necessario alla fermezza del capo di una nazione in armi.

C’è un nesso logico, e varrebbe anche per noi: se per l’Europa, come anch’io credo, dopo le elezioni americane diventa ancora più urgente, uscire dalla miope ambiguità della sua politica estera, dalla sterile austerità della sua politica economica, dal rigido conservatorismo della sua politica sociale, allora essa dovrebbe, secondo gli “atei devoti”, rinnegare il relativismo culturale che la sfibra, “darsi un’anima”, e, riconoscendo le proprie radici cristiane, trarne le energie di cui ha bisogno.
Prima di tutto, non è con George W. Bush che sentimento e pratica religiosi iniziano ad avere nella vita pubblica e nella politica americana un ruolo per noi inusuale. Pensiamo solo al Nixon, il Nixon bestemmiatore dei Washington tapes, che si inginocchia a pregare con Kissinger (Kissinger!) quando l’impeachment sembra ormai inevitabile. George W. Bush ha mobilitato i movimenti evangelici a supporto di istanze etiche, e ha determinato uno spostamento dell’asse dell’opinione pubblica americana. In qualche scuola in più verrà insegnato il creazionismo, non ci saranno matrimoni tra gay: ma non è una rivoluzione. Quello che Bush è andato ad abbattere non é il laico Saddam, ma il dittatore Saddam; quella che vuole impiantare nel cuore del Medio Oriente è una democrazia, non una missione.

Ma è la seconda parte del ragionamento, quella propositiva, rivolta a noi, a lasciarmi perplesso. Lo stato sovrano, la grande invenzione politica dell’Europa, si costituisce in contrapposizione alla Chiesa. “E’ in occasione della sfida di un punto di vista particolare, quello del cristianesimo, che ha avuto luogo la disgiunzione liberale tra il potere in generale e l’opinione in generale”, scrive Pierre Manent. Può succedere che, “per aver voluto chiudersi al potere del cristianesimo, al potere di un’opinione particolare” il nostro sistema politico sembri costretto “a privare il potere di qualsiasi opinione, e l’opinione di qualsiasi potere”.
Quando propongono di ricongiungere potere e opinione, gli “atei devoti” disconoscono il carattere fondante di quella disgiunzione. Quello della presenza dei valori religiosi nella nostra società è un tema alto, quello del riconoscimento delle radici cristiane è problema complesso. Per gli “atei devoti” l’uno e l’altro rischiano di ridursi a strumento per armarsi nel confronto con l’Islam. Ma poi, a chi si rivolgono? Chiedono agli “atei” di condividere le opinioni gradite ai cattolici, affinché i “devoti” supportino il potere invocato dai laici? Con qualche “ateo” magari funziona; con i “devoti”, come la mettono? Perché il Papa è pacifista.

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