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Anatomia di una crisi meno brutta di quanto si dica

Pubblicato il 05/03/2008 @ 11:01 in Giornali,Il Sole 24 Ore

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Le Cassandre e la politica

I MUTUI
Dai subprime è «nata» la bolla immobiliare. Ma hanno permesso a 12 milioni di persone di acquistare una casa
LE PROSPETTIVE
I dati Usa indicano che non c’è recessione. Non bisogna eccedere nell’allarmismo, il ’29 è ancora lontano

Oltre che di cicli elettorali economici, si potrebbe parlare di cicli elettorali mediatici. I periodi che precedono le elezioni sono pericolosi per le finanze pubbliche, perché i governi uscenti sono prodighi di mille concessioni (e i Parlamenti di “milleproroghe”), e quelli che aspirano a succedervi lo sono di promesse e di impegni. Ma può diventare una tentazione mediatica anche il drammatizzare la realtà, trasformare i rischi in certezze, e le difficoltà in catastrofi: i politici possono così offrire protezioni ai cittadini preoccupati, e distrarli demonizzando i colpevoli. Per le Cassandre economiche, politiche, mediatiche, può sembrare una prospettiva win-win: se la catastrofe si verifica, avranno il merito di averla prevista, se no avranno quello, grazie alle previsioni dei primi e alle azioni dei secondi, di averla evitata. E quanto ai giornali, avranno intanto venduto di più.

In tempi difficili tengono banco i pessimisti. L’arcipessimista Nouriel Roubini, della New York University, quello che nel 2006 aveva previsto la nostra uscita dall’euro in cinque anni, è autore di uno scenario, ripreso con grande evidenza da la Repubblica (Dodici tappe verso la crisi più grave, 28 marzo) , in cui si descrive una serie di eventi che, propagandosi dalla finanzia all’economia, conducono a un “meltdown” catastrofico. Facendo delle liste, si incolonnano i fenomeni in modo sequenziale, e non si colgono i rapporti strutturali che ne determinano il concatenarsi. La probabilità che si verifichino 12 eventi ( non correlati) è data dal prodotto delle probabilità di ogni singolo evento: per quanto elevata la probabilità di ciascuno, quella complessiva diventa molto bassa. Senza contare che i Governi hanno margini di manovra per prevenire eventi negativi o per ammortizzarne le conseguenze: soprattutto nel caso della prima economia mondiale, la cui moneta, come finora nel caso del dollaro, è la moneta di conto internazionale.
Le cifre in gioco appaiono imponenti, in assoluto, assai meno se poste in relazione alla dimensione dell’economia: anche la perdita di 1 trilione di dollari, stimata da Roubini alla fine della sua girandola sarebbe il 7% del PIL USA e l’1,7% della ricchezza nazionale.

Ben Bernanke, davanti al comitato Finanze del Senato, ha detto che potrebbero fallire alcune banche, e alcuni ne hanno dedotto che egli addirittura già sappia quelle che sicuramente falliranno: invece è assai più verosimile che dal presidente FED si lanci non già un allarme al pubblico, ma un avvertimento alle banche perché provvedano, mettendo in ordine nei propri conti, oppure fondendosi, oppure accettando iniezioni di danaro fresco. Oltretutto è bene che qualche banca fallisca, solo così si sconfigge l’azzardo morale implicito nell’aspettativa – non senza fondamento – che la FED intervenga a ogni crisi.

Quanto si è scritto dei mutui subprime, invenzione truffaldina! Certo, si era prodotta una bolla immobiliare, e da lì è partita la mutata valutazione dei rischi che ne ha provocato lo scoppio. Ma, come ricordava Edward Gramlich nel suo ultimo intervento presentato a Jackson Hole in Settembre, l’introduzione dei subprime nel 1993 ha consentito a 12 milioni di persone di diventare proprietari di case, gente che in larga parte non l’aveva, né poteva averla con le vecchie regole. E i casi di insolvenza, ultimamente saliti al 20%, restano in media del 12%.
Si son letti diecine di articoli in cui si demonizzava l’ingordigia dei gestori e il conflitto di interessi delle società di rating, in cui si denunciava l’opacità degli hedge fund e si chiedeva di metterli sotto controllo. Salvo scoprire che questi avevano comprato prodotti creati proprio dalle banche, che ovunque sono sotto il controllo delle autorità di vigilanza; e che il “buco” nei regolamenti che l’ha reso possibile è stato chiuso con Basilea II.
I dati USA dell’ultimo trimestre dànno il PIL ancora in crescita dello 0,6%: poco rispetto al quando l’America comperava tutto quanto il mondo produceva, ma pur sempre positivo. Perché parlare di recessione in senso proprio, dovrebbe essere negativo per 6 mesi. Si è sentito evocare il ’29: ma allora la caduta era stata del 30%, e soprattutto erano crollati i prezzi dei beni, mentre adesso a preoccupare è l’inflazione, e i prezzi delle commodities salgono. Verrà il giorno in cui anche il dollaro avrà “perso il dominio del mondo”, ma non sarà certo per le liste dei Roubini, e ho l’impressione che di anni ne debbano passare ancora molti.
La sconsideratezza dell’allarmismo, oltre che nelle previsioni, sta nei mezzi con cui si propone di contrastarlo. Si guadagna popolarità promettendo protezione contro i prezzi troppo bassi dei manufatti e contro quelli troppo alti dei generi di consumo, chiedendo di abbassare i tassi e di alzare i salari, impegnandosi a buttare danaro pubblico in grandi opere a valenza simbolica certa e immediata e a redditività dubbia e differita. Così i consumatori riducono i consumi, gli imprenditori rinviano gli investimenti, gli stranieri rifuggono da un Paese sfiduciato. Si riproduce a livello individuale l’analogo della crisi di liquidità che ha bloccato il sistema bancario: chiunque abbia una rendita, anche piccola, se la terrà stretta, e così renderà ancora più rigido un sistema che ha invece un assoluto bisogno di introdurre flessibilità e di mettersi in gioco. Passato il breve periodo dei comizi elettorali, chi con l’allarmismo avesse vinto, dovrebbe affrontare gli effetti dei timori indotti e, quel che è peggio per il Paese, mettere in atto le misure sconsideratamente promesse.

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di Michele Boldrin – Noise from America, 03 marzo 2008

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