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Al Pd serviranno i neoliberisti, non il ritorno agli anni 70

Pubblicato il 16/12/2022 @ 10:20 in Giornali,Il Foglio


In che cosa credevano i riformisti?”, si chiede Alberto Mingardi, sul Foglio dell’8 dicembre. Certo non nel neoliberisme di cui forse non era neppure nato il nome. Credevano di poter costruire, attraverso il Partito democratico, un soggetto nuovo, capace di parlare agli elettori non nei termini del conflitto sociale ma in quelli di una crescita inclusiva. Credevano di avere ragione, e la sinistra pure, nel senso che pensavano di non essere solo dei soprammobili atti ad attirare il voto borghese. Credevo anch’io di avere ragione quando nella campagna elettorale del 1996 andavo nelle sezioni del Pci di Torino Mirafiori a spiegare perché fosse bene per i lavoratori eliminare il famoso articolo 18. Pietro Ichino l’avevo conosciuto alla Società umanitaria di Milano quando presentava “Il lavoro e il mercato, per un diritto del lavoro maggiorenne”. Era l’estate del 1997 quando Carlo Azeglio Ciampi, allora ministro del Tesoro del governo Prodi, mi telefonò per dirmi che avevano convinto Cofferati, e che Telecom Italia sarebbe stata tutta venduta. Era il 2002 quando uscì “Non basta dire NO”, dove raccoglievo i contributi di undici leader della sinistra, da Boeri a Trcu, da Ichino a Salvati, da Ranieri a Rossi.

Non basta dire No, non solo a proposito dell’art 18: anche pensioni e professioni, sanità e scuola, liberalizzazioni e controllo societario, continuano a produrre contrasti e lacerazioni: ne eravamo sicuri, “è l’Italia a essere danneggiata rinviando il lavoro delle riforme”. Così come sicuri lo erano Alesina e Giavazzi pubblicando nel 2017 “Il liberismo è di sinistra”, che riprende tesi da loro esposte negli anni precedenti sul Corriere. E’ un dato su cui riflettere: tutte le “bestie nere” che agitano oggi il dibattito congressuale del Pd e suscitano la damnatio memoriae, tutti questi segni di “neoliberismo” insomma, hanno le impronte digitali del Pd. Le nostre. Cosa è andato storto?

C’era Berlusconi, e noi riformisti credevamo di batterlo non con l’antiberlusconismo viscerale del Pd, ma con le sue stesse armi, realizzando le riforme che egli prometteva senza avere né la cultura politica né l’interesse economico per farlo. Non tutti però ne erano convinti: e credo che interpretasse il pensiero dei chierici apostati Barbara Spinclli quando, il 13 gennaio 2006, scriveva essere stato “errore dei riformatori quello di chiedere all’ala sinistra del partito di rinnegare la propria storia”. E cioè: non i borghesi per aiutare la sinistra a vincere le elezioni, mala forza del proletariato per aiutarli a espellere quel corpo estraneo.

E’ da questa “poca fede” nella forza delle riforme che parte la “trahison des cleres”. Non una singola Caporetto, piuttosto una successione di cedimenti su vari fronti. Il primo che mi viene in mente è il referendum sull’acqua pubblica del 2011: un paradosso perché contro riforme – dall’acqua ai servizi pubblici locali-che il Pd stesso aveva tentato di far passare senza però riuscirci. Su Telecom privatizzata si abbatté una serie di interventi pubblici, da quello della magistratura che indusse Colaninno a passare la mano a Tronchetti, che a sua volta il piano Rovati “convinse” a lasciare, fino all’Openfiber di Renzi, e alla rete unica di Grillo. Su Aspi e il ponte Morandi, rapida fu l’acquiescenza alla “sentenza” di Toninelli. Che il populismo pentastellato abbia incrociato sensibilità antiche è ovvio: quelli che devono preoccupare sono i cedimenti di una borghesia che si crede moderna quando applaude alle iniziative di una Cdp risanata nei conti e rinnovata nelle ambizioni; che gonfia il petto quando la presidente Von der Leyen annuncia di voler fare dell’Europa un “regulatory superpower” che eviti gli eccessi dei Big Tech americani; che applaude un golden power che protegga i nostri gioielli dalle cupidigie dei mercati internazionali. Era stato facile convertire i “comunisti” ad abiurare i dogmi della proprietà pubblica dei mezzi di produzione, adesso ci si umilia a far leva sul tema dell’equità per ottenere dai loro epigoni un sostegno nella querelle tra shareholder e stalceholder value, senza preoccuparsi che questo equivalga a chiedere un aiuto a tagliare il ramo su cui tutti, chierici e catecumeni, stanno seduti.

Per il chierico è più facile “cedere e tradire” se cambiano i riferimenti sociali e i targct politici di quelli che considerava suoi alleati. Il Pd del Lingotto puntava all’elettore mediano per conquistare la maggioranza. Adesso, almeno a giudicare dal dibattito congressuale, la vocazione maggioritaria è stata rottamata e l’elettore mediano non solo non viene più cercato, ma è esplicitamente rifiutato. Meglio pochi, puri e perdenti, che un partito plurale e aperto. Oggi il Pd, come scrive Mingardi, sembra vittima della nostalgia degli anni Settanta: vuole di nuovo il voto operaio, in gran parte migrato a destra o verso il M5s, e pretende di conquistarlo con gli slogan di allora. E pazienza se gli operai di oggi sono molti meno di allora e soprattutto se sono cambiati, perché nel frattempo sono cambiate le fabbriche ed è cambiato il mondo cui vanno i loro prodotti. Ma non è cambiata la testa di quei chierici: libertà, mercato e concorrenza, continuano a essere riferimenti imprescindibili. Una, cosa è certa: un Pd siffatto questo paese non riesce né a crescerlo né a sfamarlo. E’ solo la crescita a creare maggiore ricchezza, distribuirla equamente è la parte facile del gioco.

E quindi continuano a volerci quegli altri chierici, i “neoliberisti” tanto per intenderci, se si vuole dare un contenuto alla proposta di governo. In un paese dove “concorrenza” è una brutta parola, dove lo stato non se ne è mai andato da servizi pubblici, sanità, educazione, previdenza; dove la spesa pubblica al netto degli interessi supera metà del Pil, il Pd dovrebbe essere (o tornare a essere?) cosciente che non basta averli come alleati in un futura coalizione di governo, ma come compagni che dall’interno del partito lo innervino del loro pensiero: perché ancora oggi non basta dire No. Una cosa diversa rispetto al fare spazio a “culture e storie politiche diverse” come il Pd ha sempre fatto. Il modello Draghi, non replicabile senza di lui, dovrebbe insegnare a essere meno preoccupati della propria e altrui identità e con centrarsi di più sulle cose da fare.

La scuola ad esempio. Che sia il solo modo per promuovere la crescita nel lungo termine è indiscusso; che oggi i risultati siano pessimi, sia dal punto di vista della qualità che da quello dell’equità. Sia dunque la scuola lo “hic Rhodus, hic salta” del nuovo Pd.

Se la chiave che offre il Pd per interpretare il mondo fosse quella marxista, allora l’enfasi sarebbe tutta su proprietà e gestione dei mezzi di produzione e quindi la scuola verrebbe organizzata avendo in mente gli interessi di chi vi lavora. Se invece la chiave interpretativa è quella riformista, essa andrà organizzata avendo in mente offrire un servizio di qualità agli studenti. Bisogna scegliere da che parte stare: dalla parte degli interessi coalizzati di chi fornisce un servizio, o dalla parte della massa indistinta di chi i servizi li usa. Data la dimensione del settore, cambiamenti radicali non sono implementabili: il Pd deve dunque impegnarsi a condurre una sperimentazione, da estendere successivamente. Sulle scuole pubbliche autonome c’è una vastissima letteratura. Basta qui ricordare che esse garantiscono il diritto costituzionale, non creano scuole elitarie, non aumentano il costo per l’erario, ma aumentano le possibilità di scelta per insegnanti e per famiglie, prendono in considerazione sia i meriti individuali sia le differenze di background geografico e famigliare. In Inghilterra si chiamano Charter School o Academy: il governo inglese ha deciso che devono diventare il cento per cento entro il 2030. Da noi, l’obiettivo di un esperimento che arrivi in cinque anni a un 10 per cento in dieci regioni sembra più che ragionevole.

Una grande sfida: sul piano dei rapporti tra insegnanti e famiglie, tra scuole e territori, tra formazione e lavoro. Potrebbe essere quella atta a definire la scelta, di natura e di obbiettivo, del nuovo Pd: migliorare la società e offrire un servizio di qualità, oppure interpretare la parte autoconsolatoria e fallimentare dei lottatori di classe.

Il peccato neoliberista

di Alberto Mingardi – Il Foglio, 08 dicembre 2022

In qualsiasi partito, un nuovo gruppo dirigente deve cercare di affermare, assieme con se stesso, un’identità, un catalogo di proposte, alcuni simboli politici. La sinistra del Partito democratico però non è un gruppo dirigente particolarmente nuovo, si tratta solo della generazione attuale della “ditta” che a malincuore ha accettato le capriole consonantiche che l’hanno portata da Pds a Ds a Pd. Le sue proposte si riducono, in buona sostanza, a una: superare il “neoliberismo” di cui sarebbe intriso lo stesso manifesto dei valori del Pd, scritto nel 2007.

La sinistra è, non solo in Italia, sempre più “sinistra”. Essendo l’unica parte politica che viva in un rapporto osmotico coi propri intellettuali, è destinata a somigliare al racconto che essi ne fanno. Avviene anche al Pd, che pure là dove governa in modo più saldo (in Emilia-Romagna, in Toscana) è occupato a venire alle prese coi problemi del mondo anziché stupire con effetti speciali. La sua narrazione “nazionale” è tutta diversa. Perché non corrisponde al partito degli amministratori, bensì a quello dei chierici. La sinistra è da sempre la parte politica che offre al ceto intellettuale la più straordinaria opportunità di mutazione. “I filosofi si sono limitati ad interpretare il mondo in modi diversi; si tratta ora di trasformarlo”. Generazioni d’intellettuali hanno guardato al “moro” di Treviri come indefettibile modello. Che avessero letto il primo libro del “Capitale”, o più probabilmente “Il socialismo dall’utopia alla scienza” di Engels, si inebriavano della conquista inattesa di una grande verità: aver scoperto in che direzione si muove la storia, mica poco. Ma hanno cercato di anticiparla, la storia, di forzarla sui suoi pretesi binari, sicuri che solo un’avanguardia intellettuale potesse fare avvertire al proletario il peso delle sue catene.

Da alcuni anni in qua, i chierici hanno formulato una diagnosi chiara sui guasti della sinistra: la sinistra perde perché ha smarrito il legame con la classe operaia. Sul declino del voto “di classe”, ovvero sull’attenuazione del nesso fra condizione sociale di appartenenza e preferenza politica, c’è un intenso dibattito internazionale. Rimanendo all’interno dei nostri confini, possiamo ricordare come già negli anni Novanta si osservasse un travaso verso la Lega del voto operaio al nord e come, negli anni Duemila, il voto operaio fosse già diviso grosso modo equamente fra destra e sinistra, mentre le regioni a più elevata “intensità” industriale votavano per la destra. Alle ultime elezioni è stato FdI a primeggiare fra gli operai, seguito da Cinque stelle e Lega.

Il fenomeno dello scollamento fra classe sociale e preferenze politiche andrebbe indagato nelle sue diverse dimensioni. Qualcuno potrebbe dire che è una buona notizia: a suo modo segnala il maggior benessere raggiunto nella società tutta, grazie al quale cambiano le priorità degli elettori. Altri potrebbero biasimare la prevalenza della politica dell’identità, del dato culturale, che è poi la ragione per cui posizioni conservatrici vengono sposate da persone più umili e affezionate ai punti cardinali del passato, mentre fra gli individui a più alto reddito prevalgono orientamenti più cosmopoliti e mentalità più aperte.

L’impressione è che per i chierici la perdita del voto operaio sia un’utile scusa per aprire i rubinetti della nostalgia. Per rappresentare gli operai, che c’è di meglio che dire le cose che dicevamo, quando effettivamente votavano per noi? Per gli intellettuali, era un’epoca d’oro: quella in cui le loro parole cambiavano davvero, se non il mondo, almeno le mozioni congressuali.

Per questo a quelle parole, rivedute e corrette, sono tornati, seguendo le star della sinistra internazionale (da Piketty in giù). L’enfasi sul tema delle diseguaglianze, i propositi di sabotaggio di ogni residuo di libertà contrattuale nelle relazioni industriali, l’ambientalismo, il disegno di una bellicosa politica industriale, eccetera, non sono una delle due strade che il gruppo dirigente del Pd può cogliere, in una sorta di congresso redde rationem sull’identità del partito. Sono un sentiero che quel medesimo partito calca da anni e con piena convinzione.

Anziché mettere in discussione l’effettivo gradimento dell’elettorato per queste proposte, anziché chiedersi se davvero intercettino i problemi del paese, anziché domandarsi se forse il Pd non abbia perso la sua “vocazione maggioritaria” perché è diventato assieme il partito “del governo” e del pubblico impiego, i chierici e i loro discepoli sostengono che ogni problema del partito venga da un peccato originale. L’iniziale “neoliberismo”. Ma qual è il fantasma del neoliberismo, di cui si vorrebbe sbarazzare?

E’ vero che in Italia, per alcuni anni, è stata la sinistra a promuovere politiche di “modernizzazione”, tese ad avvicinare il paese alle altre liberaldemocrazie a economia di mercato. Ciò è avvenuto soprattutto nella legislatura del centrosinistra, 1996- 2001. Le circostanze erano eccezionali. In primo luogo, il vecchio partito della sinistra italiana, il Pci, era riuscito ad abbandonare nome e simbolo senza alcuna “revisione” ideologica: ma attraverso una “svolta”, per cui si immaginava che non ci fossero nodi da sciogliere né questioni da chiarire. A ciò corrispose una accresciuta disponibilità a seguire le tendenze prevalenti altrove. Negli Stati Uniti Clinton, in Inghilterra Blair, avevano dovuto reinventare i rispettivi partiti alla luce del successo di Reagan e Thatcher. E siccome quel successo non si poteva negare, cercarono di venirci a patti, provando per esempio a usare incentivi economici e riforme “di mercato” per far funzionare lo stato sociale, rilanciandone legittimità e immagine (pensiamo al cosiddetto welfare to work). In Italia, un economista cattolico di formazione keynesiana, Beniamino Andreatta, meglio di altri aveva colto il nesso perverso fra partitocrazia, corruzione e aumento incontrollato della spesa pubblica. Dal cosiddetto “divorzio” fra Banca d’Italia e Tesoro al referendum elettorale del 1992 all’accordo Andreatta-Van Miert, gli atti politici più rilevanti e lungimiranti dell’epoca si devono ad Andreatta. La meta era chiara: una democrazia meno esposta alla corruzione, che consentisse l’alternanza fra partiti di governo. Quando ci arriva la sinistra, presidente del consiglio è un allievo di Andreatta, Romano Prodi, e ministro del Tesoro è Carlo Azeglio Ciampi. Le privatizzazioni di Telecom, Eni ed Enel, Autostrade, il pacchetto Treu sul mercato del lavoro, risalgono a quegli anni.

Era “neoliberismo”? E’ un po’ difficile sostenerlo, visto che al governo con Prodi c’era Bertinotti e con D’Alema e Amato ci rimase Cossutta. Ciampi si impegnò per un rassetto della spesa pubblica ma gli interventi rimasero marginali, nel segno della lotta agli sprechi e di una migliore organizzazione. C’era, senz’altro, una componente numericamente esigua, ma pugnace, dell’allora maggioranza che avrebbe volentieri spinto sull’acceleratore “riformista”. Parola che, fateci caso, è scomparsa dal vocabolario della sinistra contemporanea, in una sorta di damnatio memoriae. La sinistra che non si vergogna che nella sua storia politica ci sia l’aver fiancheggiato l’Unione Sovietica anche dopo i “fatti d’Ungheria”, si vergogna di avere privatizzato Telecom.

In che cosa credevano, i riformisti? La convinzione comune di quel gruppo era, grosso modo, che in un paese come l’Italia, dove non mancano le incrostazioni corporative, “liberalizzare” fosse la condizione magari non sufficiente ma necessaria per ampliare il ventaglio delle opportunità per tutti. Per avere un’idea della consistenza dei riformisti, basti ricordare che al congresso Ds del 2001 Enrico Morando, candidatosi segretario, prese poco più del 4 per cento dei voti. Piccole forze politiche e singole personalità eminenti esercitavano però maggiore condizionamento sugli ex comunisti allora, di quanto sarebbe avvenuto dalla nascita del Pd in poi.

E’ difficile sostenere che i riformisti fossero “neoliberisti”. Diciamo che erano socialisti “colpiti dalla realtà”. Qualcuno di loro civettava di aver accettato l’economia di mercato per disperazione: la disperazione di vivere nel paese col più formidabile repertorio di fallimenti dello stato di tutto l’occidente. Altri inquadravano la loro adesione all’economia di mercato nell’ambito di una battaglia di modernizzazione e legalità: separare politica ed economia, facendo in modo che lo stato smettesse di gestire la gran parte della vita economica del paese, era necessario per diluire la corruzione degli apparati pubblici. E’ la tesi che, senza trovare interlocutori, ha riproposto Giuliano Amato nel suo “Bentornato stato, ma” (il Mulino). Altri ancora semplicemente dovevano ammettere che a quel tanto o a quel poco di “liberismo” rimasto in occidente si doveva una produzione di ricchezza talmente straordinaria, da consentire la sopravvivenza di elefantiaci apparati statali. Teniamo da conto la pecora, proprio perché vogliamo tosarla.

Il manifesto dei valori del Pd, dovuto a una commissione presieduta da Alfredo Reichlin (non certo un neoliberista), di queste cose indubbiamente teneva conto. Ed è vero che letto oggi, e paragonato alla retorica prevalente nell’odierno Pd, sembra una traduzione da qualche think tank americano. Mirava a realizzare un “partito aperto nel mondo globalizzato”. L’idea di fondo era che “negli scenari complessi del mondo globalizzato non esistono solamente nuovi problemi, ma anche nuove opportunità”. Opportunità era una parola cruciale, da declinarsi nella cornice dello stato sociale ma in un’ottica di empowerment, di “attrezzamento” dei singoli individui. La vocazione maggioritaria si vedeva nel fare a meno di certe parole amate dai chierici, per provare un lessico che ammiccasse agli elettori degli altri.

Oggi si dice: neoliberismo, ieri si sarebbe detto: pensiero borghese. Il punto è tutto qui. Enrico Letta, che pure al canovaccio oggi dominante a sinistra ha tentato di adattarsi per come poteva un moderato per tradizione e carattere, in un dibattito se l’era fatto scappare: parlare di liberismo in Italia è un po’ difficile. E’ vero che nella legislatura del centrosinistra si privatizzò, e non poco. E’ altrettanto vero che oggi, per fare un solo esempio, il paese ha di nuovo un grande player assicurativo pubblico, com’era l’Ina privatizzata da Amato. Che la Cassa depositi e prestiti è il burattinaio anche di aziende che erano state cedute totalmente, come Tim. Che lo stato dai servizi pubblici locali non se n’è mai andato, come non ha mai ceduto il passo alla concorrenza nella sanità, nell’educazione, nella previdenza. Che la Borsa italiana è sostanzialmente un gioco di imprese controllate dal pubblico. Che la spesa pubblica supera, anche al netto degli interessi, il 50 per cento del pil. Che la tentazione comune, sinistra e destra, è pensare che a ogni problema debba corrispondere una legge, e di legge in legge siamo arrivati ad avere un quadro normativo talmente complicato che neppure i tecnici del diritto sanno più destreggiarsi nel groviglio.

Il grande economista austriaco Ludwig von Mises identificava nel “polilogismo” una delle più durature eredità del marxismo. Marx postula che “la struttura logica della mente è diversa da classe a classe. Non esiste una logica universalmente valida. Ciò che la mente produce non è che ideologia, cioè, nella terminologia di Marx, un insieme di idee che mascherano gli interessi egoistici della classe sociale a cui il pensatore appartiene”. Per questo la mente “borghese” degli economisti non poteva fare altro che offrire una “apologia” del sistema capitalistico.

I chierici di oggi sostengono qualcosa di non troppo diverso. Con convinzione, si ritraggono da qualsiasi discussione nel merito delle singole questioni. Ogni opinione diversa dalla loro (che si discuta di questioni di genere o della privatizzazione di Ita) è semplicemente riconducibile a un interesse: se i loro avversari non sono servi del capitalismo, sono servi del patriarcato. Nel dibattito italiano, questo diventa la “diversità” di tempra morale che dividerebbe la sinistra dagli altri.

Convinti di fare politica in nome di alcune idee, i chierici non riconoscono nell’altro una propensione simile. E non solo, ormai, non lo riconoscono alla destra: non lo riconoscono neanche a chi, a sinistra, abbia posizioni non esattamente sovrapponibili alle loro. Non lo riconoscono ai loro predecessori degli ultimi trent’anni: i quali, faticosamente e in modo imperfetto, cercavano di fare i conti con una realtà che avevano scoperto, chi con il crollo del Muro, chi poco prima. L’ebbrezza del maggioritario consigliava loro di fare politica con l’ambizione di sottrarre voti all’avversario. Il che costringeva a cercare di comprendere le sue ragioni.

Oggi il partito dei chierici coltiva la vocazione minoritaria. Quelle degli altri non sono idee, ma interessi messi in bella copia. La politica è solo la ricerca di minoranze da liberare dal condizionamento di questo o quel padrone. Il neoliberismo come ipnosi da cui ridestare un mondo di oppressi. Vedremo quanto dura questo trip.

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