Agenda Draghi per una politica industriale liberal-liberista

ottobre 6, 2010


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di Giuliano Ferrara.

I consigli al governo in una ricerca di prossima pubblicazione del capo economista di Bankitalia: non solo modello tedesco

Una politica industriale serve, purché non ricalchi quella discrezionale e dirigista degli anni Settanta, e si ispiri al modello tedesco non solo nelle relazioni sindacali ma anche come proiezione del sistema paese. Sono le indicazioni contenute in un paper in corso di limatura scritto anche dal capo dell’area ricerca economica della Banca d’Italia, Salvatore Rossi.

Lo studio, intitolato L’economia italiana tra crisi e nuova globalizzazione, è curato da due economisti della Banca governata da Mario Draghi, appunto Rossi e Antonio Accetturo, e da Anna Giunta dell’Università Roma Tre. L’analisi dell’impatto della crisi sull’economia italiana non è propriamente tremontiana, secondo alcuni osservatori: “Mentre la crisi finanziaria mondiale ha solo sfiorato il sistema finanziario italiano, la recessione globale che ne è conseguita ha inferto all’economia reale del nostro paese danni molto ingenti, più che ad ogni paese avanzato”. Per ricorrere a una metafora medica, gli autori dicono che “l’infezione, la stessa per tutti, ci ha causato una febbre più alta perché il nostro organismo era debilitato”. Debilitato? Ecco la sequenza che dimostra questa affermazione, si legge nella ricerca che sarà pubblicata sul prossimo numero della rivista l’Industria del Mulino: la struttura produttiva frammentata, tradizionale e familiare ha ritardato l’adeguamento sia alla rivoluzione tecnologica sia alla globalizzazione; il risultato è stato inevitabile, con una stagnazione della produttività (più 0,2 per cento l’anno in media) e un’anemica crescita (poco più dell’uno per cento medio all’anno).
Con questa situazione di partenza, la recessione non poteva non avere un impatto maggiore rispetto ad altre economie più robuste: la crisi ha fatto perdere 24 trimestri di pil contro i 13 della Germania e i 12 della Francia. Dalla diagnosi alla prognosi il passo è breve: c’è bisogno di una politica industriale?, si chiedono gli economisti della Banca d’Italia nelle conclusioni in fieri. La risposta è sì. Nella bozza si legge: “C’è probabilmente bisogno più che mai di disegnare o migliorare azioni pubbliche per riparare a fallimenti del mercato”. La stella polare per una politica industriale, hanno spiegato gli autori presentando lo studio a un convegno della rivista l’Industria, sono proprio i fallimenti di mercato: è necessario che lo Stato intervenga dove il mercato non riesce a soddisfare l’offerta. L’auspicata politica industriale si basa su quattro pilastri così sintetizzati. Primo: “Abbassare i costi informativi sui mercati esteri”. Ovvero: enti pubblici, società
statali e ministeri (dalla Farnesina al Commercio estero) collaborino per sostenere le imprese italiane che
vogliono investire all’estero. In questo caso l’esempio è la Germania, aggiunge Rossi, dove il sistema paese affianca e asseconda l’espansione delle imprese nazionali. Secondo cardine: “Indurre le imprese a consorziarsi per conseguire beni di club”. Insomma, la polverizzazione e il solipsismo imprenditoriale devono essere superati con forme di aggregazione e consolidamento. Terzo pilastro: “Rendere attraenti i nostri territori per gli investitori esteri (effetti di spillover da multinazionali a subfornitrici)”. Traduzione dalla terminologia accademica: l’arrivo di gruppi esteri produce un effetto benefico indiretto perché avranno
bisogno della produzione anche delle aziende italiane che riforniranno il gruppo straniero. Infine, ma non per ultimo: “Definire un quadro giuridico competitivo che permetta alle committenti esteri di fidarsi delle subfornitrici italiane”. Come dire: l’opacità delle clausole contrattuali e l’incertezza normativa sono un disincentivo agli investimenti esteri. Rossi conclude che è necessaria una politica industriale ma non quelle rivelatesi fallimentari degli anni Settanta e Ottanta, discrezionali e dirigiste: le politiche industriali conformi a economie di mercato devono essere selettive e non intrusive.

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