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Non solo Telecom, quando l'italianità è a singhiozzo

Pubblicato il 10/02/2010 @ 15:35 in Articoli Correlati

il_riformista

Perché un residuo della storia economica del Novecento ci spinge a occuparci più della nazionalità di un`infrastruttura che di quanto potremmo farne, come nel caso del gruppo telefonico. Mercato e ruolo degli investitori istituzionali. Un parere di Gamberale.

di Marco Ferrante

Ci occupiamo molto più di nazionalità delle reti che d`idee strategiche per il futuro delle stesse reti. Le classi dirigenti politiche e gli osservatori economici sono concentrati soprattutto sugli assetti di controllo della rete Telecom, per esempio. Meno a quello che si deve fare della banda larga, di quanto denaro sia ragionevole investire e se sia quella l`infrastruttura tlc su cui puntare e quale sarà il rapporto tra internet e televisione. La discussione sulla nazionalità, del resto, ha un suo fascino. Negli ultimi cinque anni italianisti e internazionalisti (spesso le stesse persone che a seconda dei casi cambiavano maglia) hanno combattuto per le banche, per le autostrade, per Telecom, per Alitalia e ancora per Telecom.

E’ un residuo della storia economica novecentesca. In generale nel dopoguerra tutti i paesi che aspiravano a un ruolo politico hanno cercato di ricostruire o rimodernare i sistemi economici a partire da energia, infrastrutture e tlc. Negli anni, i sistemi economici nazionali in questi campi hanno sempre cercato di mantenere azionariati pubblici, e successivamente comunque stabili quando sono stati avviati processi di privatizzazioni. Dice Vito Gamberale, già alla guida di Tim, della società Autostrade e adesso capo dei fondi italiani per le infrastrutture F2i, che «mentre la manifattura si può globalizzare, le reti infrastrutturali non possono essere globalizzate. La globalizzazione di un acquedotto odi un`autostrada è impossibile. E’ giusto e razionale che gli utili generati da una rete restino in quei paesi dove la rete sorge per garantirne lo sviluppo». Di solito, osserva Gamberale, la nazionalità di una rete serve a questo, a tenere le risorse vicine all`asset, a non separarle.

In molti casi di cessione estere, l`asset ceduto diventa solo una remota divisione della società acquirente, sono una specie di cash-cow, di mucca da soldi.

E’ successo, però, che reti privatizzate siano diventate cash-cow anche per mano di azionisti nazionali. Come si fa a evitarlo, a fissare delle regole per garantire sviluppo? «Si può fare con un sistema concessorio che ponga dei vincoli, ma questo non sarebbe sufficiente.

In realtà c`è un aspetto legato alla responsabilità.

Ci vogliono azionisti istituzionali che assicurino contemporaneamente la giusta remunerazione del capitale e la necessaria allocazione delle risorse», dice.

In una delle privatizzazioni italiane più discusse, e che viene giudicata da molti osservatori la peggiore di quelle degli anni 90 e cioè Telecom, il problema dell`italianità si pose solo dopo, come conseguenza di una privatizzazione nata male. Gamberale non vuole parlare di Telecom, in generale dice:

«E’ chiaro che gli stati non sono più in grado di alimentare 1o sviluppo delle grandi reti; bisogna capire come gli stati possano privatizzarle. Per esempio, le società immobiliari spagnole che hanno comprato infrastrutture dallo Stato oggi hanno un debito consolidato di 300 miliardi di euro. Ecco perché credo che l`unica soluzione sia quella dell`ingresso nel capitale di investitori istituzionali che diano stabilità». Nei telefoni europei, per esempio, France Telecom e Deutsche Telekom sono come Enel ed Eni da noi, hanno un azionista pubblico di riferimento. British Telecom e Telefonica hanno azionisti istituzionali di riferimento. In alcuni casi i privati non funzionano sul lungo periodo o perché si ritrovano con spalle troppo strette, o perché, come dice Gamberale, sono «vittime del dividendo bramoso» (ma questa è la vita), o perché sono sensibili al guadagno secco e breve. Emilio Gnutti e Roberto Colaninno – quest`ultimo riluttante vendettero a Marco Tronchetti Provera per 4,2 euro l`una, azioni che valevano 2,2, con un premio di maggioranza del 90 per cento.
Telecom è un`azienda fragile, condizionata da un debito elevato che ha bruciato la sua dote di partecipazioni internazionali e – a causa di cinque cambi di proprietà in dodici anni – è priva di una continuità nella linea di sviluppo. Al momento della privatizzazione era il primo operatore di telefonia mobile al mondo e aveva fatturato e capitalizzazione di gran lunga superiore a quella del suo attuale azionista, Telefonica: a proposito, ieri il titolo Telecom è stato il migliore del Mib (+3,05 per cento) sulle voci in arrivo dal Brasile di un`imminente soluzione matrimoniale con gli spagnoli.

Oggi i problemi della società tlc sono due: il debito, appunto, e la spinta politica a mantenere la rete italiana –spinta condivisa da quasi tutta la maggioranza e anche dall`opposizione, fino al punto che molti nel Pd hanno abbassato i toni sul conflitto d`interessi, perché pur di garantire l`italianità della rete sarebbero disponibili a fare entrare anche Mediaset in un`ipotetica società della rete; del resto sarebbe ingiusto escludere Mediaset se si facessero entrare tutti gli altri player delle tlc. Come far convivere debito (da ridurre) e italianità? In alternativa alla fusione con Telefonica, con conseguente accordo di governance italospagnolo sull`amministrazione della rete, nei giorni scorsi è circolata un`ipotesi più o meno così. Telecom ha bisogno di 8-10 miliardi di euro per normalizzare il debito. Una parte minoritaria potrebbe venire da un aumento di capitale. Il resto, i tre quarti da un`operazione di questo genere: scorporo societario della rete di Telecom in una società nuova controllata al 55 per cento da Telecom, e partecipata al 45 per cento da altri soggetti istituzionali che comprerebbero la quota di minoranza.

A quel punto Telecom si troverebbe con un debito stabilizzato e la rete resterebbe italiana, senza compromettere l`integrità dell`azienda telefonica né il controllo strategico dell`asset. E una strada praticabile? «E un`idea che ho sentito anch`io circolare in questi giorni, ma non sono io che devo parlarne».

Se si riuscisse a risolvere questo problema di assetto, il dibattito potrebbe finalmente passare ad altro. Per esempio, che cosa vogliamo fare della rete telefonica. «Ricordiamoci – dice Gamberale – che dodici anni fa esisteva già un piano Socrate predisposto da Ernesto Pascale, allora capo della Stet, per la banda larga».

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